Conversazione con la curatrice Helia Hamedani, una vita tra Roma e Teheran, un percorso professionale per far tornare Roma protagonista del contemporaneo
Helia Hamedani, curatrice e ricercatrice divisa tra Teheran e Roma, dopo la laurea in disegno industriale in Iran inizia gli studi alla Sapienza e si iscrive al corso di Storia dell’arte conseguendo la laurea triennale e magistrale in arte contemporanea. Oggi ci parla del suo lavoro di curatrice e del suo ultimo progetto, la mostra Contestare l’ovvio al MLAC della Sapienza (18 ottobre-10 novembre 2017)
Come hai cominciato a curare mostre e qual è stata la prima?
Nella mia università in Iran nel 2002 quando studiavo disegno Industriale. Con i colleghi di allora organizzammo un festival e le opere in mostra erano i prodotti sperimentali degli studenti di Design e io ero la direttrice del festival. Poi mi sono trasferita dal mondo degli oggetti funzionali a quello umanistico, ai pensieri non funzionali, tanto per citare il nostro ospite alla mostra il 9 novembre 2017, Cesare Pietroiusti. In Italia invece, mentre studiavo Storia dell’Arte, la prima volta è stata nel 2012 per una mostra di artisti italiani e iraniani a cura di Bruno Corà, sull’idea dell’artista iraniano, Bizhan Bassiri.
Ci sono stati curatori che ti hanno influenzato?
Ho ammirato la figura, il mito di Harald Szeeman, come una groupie dei cantanti rock, la lettura di Hans-Ulrich Obrist mi ha profondamente appassionato, ho realizzato la mia tesi magistrale su un curatore critico che mi ha fatto molto riflettere: Nicolas Bourriaud. Ho anche conosciuto e intervistato Achille Bonito Oliva, i primissimi anni che sono arrivata a Roma. Ma a parte questi curatori-superstar ci sono molti curatori meno conosciuti ma brillanti. Per esempio un giovane curatore iraniano, Amirali Ghasemi, è fondatore dell’associazione New Media Society a Teheran ed è un artista/curatore che senza budget istituzionali riesce a creare e gestire grandi idee innovative nella sua città.
Cosa ti ha avvicinato all’arte contemporanea?
Non saprei dire esattamente, mi viene spontaneo curiosare sul contemporaneo, il qui e ora. Posso dire che mi ha avvicinato alla Storia dell’Arte lo storico iraniano direttore dell’enciclopedia, Ruin Pakbaz, con quale ho fatto le mie prime lezioni, mi ha trasmesso un codice, un’emozione, una chiave per ammirare la storia. Il collegamento con il contemporanea è stato anche un merito fondamentale di Carla Subrizi, La mia prof-mentore all’università.
Sarebbe interessante parlare delle tue precedenti esperienze curatoriali. Abbiamo notato che un elemento ricorrente è l’interculturalità.
Sì, ho un bagaglio culturale differente e un percorso tortuoso se vuoi. Ma chi non ce l’ha? Il viaggiatore indubbiamente mette in dialogo vari segni, le città e gli scambi direbbe Italo Calvino. Per il concorso dei giovani curatori al Macro di Testaccio nel 2013, che era dedicato ai giovani artisti di Roma capitale, ho partecipato con amici artisti che non erano italiani, ma vivevano e lavoravano a Roma. Dal 2014 ho un appuntamento annuale alla galleria romana La Nube di Oort per indagare attraverso le mostre una mia personalissima domanda: dov’è casa? Ho invitato tanti artisti che non sono necessariamente lontani dalla loro patria. Possiamo essere tutti stranieri, anche a casa nostra.
Bisogna uscire dalla rigida mentalità di includere gli stranieri solo per il semplice fatto di restare politically correct. Nicolas Bourriaud usa la metafora botanica della pianta radicante: un’organizzazione crea le sue radici man mano che avanza con la crescita. Bisogna abbandonare l’idea di radici che restano ferme, oggi siamo nomadi, culturalmente parlando abbiamo la capacità di sradicarci per aggregarci continuamente altrove.
Il tuo lavoro di curatrice e ricercatrice si divide tra Tehran e Roma. Pensi che ci siano delle differenze tra la visione dell’arte contemporanea a Roma e a Tehran?
Nella mia città, rispetto a Roma ho avuto meno tempo di indagare l’ambiente dell’arte contemporanea, negli ultimi 9 anni sono sempre stata a Roma, tranne pochi mesi l’anno. Sto collaborando con varie riviste a Teheran. La differenza che percepisco è che in Iran c’è un’aria molto nuova, molto vivace, si potrebbe paragonarla all’atmosfera europea degli anni ’70, ma in un periodo storico e un contesto politico completamente diverso.
Ci sono spettacoli, teatri negli appartamenti, concerti underground, attività sperimentali e laboratori di danza contemporanea e quant’altro. Un fermento creativo paragonabile a quegli anni. Ovviamente mi riferisco a Teheran che è differente da altre città iraniane. Anche la situazione economica degli artisti e dei galleristi sembra più facile, non si sente l’aria della crisi economica che percepisco in Italia. Anche perché nei momenti di instabilità e chiusura politica, l’arte rimane sempre l’occasione di respiro. I veri luoghi d’incontro sono le inaugurazioni non esistendo i locali notturni, alle inaugurazioni la popolazione si riversa in massa, si fanno dei veri e propri tour di gallerie, anche se poi le mostre durano una settimana, ci si va il venerdì come ad una festa. Le mostre nel 98 % dei casi hanno il catalogo e normalmente vendono. C’è però una grande mancanza di storia e teoria del contemporaneo rispetto a Roma. A Roma invece sento che tutto è più lento; c’è meno entusiasmo, più pessimismo. Non è paradossale?
Arriviamo alla mostra al MLAC Contestare l’ovvio. Come ti è venuta questa idea?
Avevo molte idee ma poco tempo, mi sarebbe piaciuto fare una sorta di “teatro delle mostre”, invitare tanti artisti romani che conosco e stimo e ogni sera fare un’azione o una performance. Sognavo di coinvolgere altri dipartimenti e fare una grande manifestazione d’arte all’università! Ma alla fine ho messo i piedi per terra, una sera guardavo un dibattito su youtube e mi è venuta in mente l’idea della contestazione dell’ovvio. E mi sono venuti in mente tanti artisti che conoscevo che partono proprio da questo dubbio. Pensate ai pittori e al famoso testo di Merleau-Ponty intitolato “Il dubbio di Cézanne”. Quanto è nobile e difficile comprendere la sfida della pittura. Percepisco le opere presenti alla mostra come un esercizio sulla soglia della follia, ciò che serve a liberarci dall’immagine ferma, a farci migrare nella decolonizzazione dell’immaginario. Volevo partire da un tema economico, politico e ideologico e coniugarlo all’estetica. Estetica intesa come una parte di qualsiasi della trasformazione sociale ed etica.
Il concept della mostra è molto legato alla filosofia e si possono intravedere dei richiami adorniani al concetto di “altro del mondo” dell’arte, le possibilità inespresse del mondo che l’opera ha il compito etico di far emergere (utopia), qual è per te il ruolo dell’arte rispetto alla necessità di analisi e contestazione del reale?
Il compito dell’arte per me è sempre utopistico, ma siamo fuori dal tempo dell’utopia con la “U” maiuscola, Nicolas Bourriaud usa il termine di micro-utopie. Possiamo creare micro-utopie facendo piccole cose di breve durata. Precarie appunto. L’altro del mondo mi ricorda un disordine caotico, l’elogio ad una sorta di follia, che forse è presente anche in questa mostra.
Tra gli artisti scelti di questa collettiva la maggior parte lavora soprattutto a Roma. Cosa ne pensi della scena artistica contemporanea romana?
A Roma esistono grandi possibilità e capacità, mentre tanti pensano a Roma come città provinciale e un poco indietro. Ho sentito perfino chi dice che il punto debole di Roma sia la sua grande storia che schiaccia il contemporaneo! Sinceramente a me sembrano solo frasi ad effetto. Certo a Roma manca la vera linea critica rispetto alla gloriosa stagione degli anni 60 e 70 quando Roma era l’arena degli eventi dell’arte contemporanea nel mondo.
Siamo presi a fare mostre senza nessuna considerazione, senza nessuna linea critica, raramente ci sono seminari e dibattiti per il pubblico fuori dall’università, pochissimi i forum e rare le scuole di pensiero. Magari fuori ci fosse la metà dell’entusiasmo, della collaborazione e della apertura mentale che trovo all’università. I grandi provinciali semmai sono i musei contemporanei romani, che per paura di essere tacciati di italianità diventano troppo esterofili, trascurando i giovani e meno giovani talenti, le realtà di casa. Il Mlac è uno spazio istituzionale ed accademico e la mia scelta di invitare artisti della scena romana era assolutamente intenzionale, proprio per sottolineare la mancanza d’attenzione riservatagli dalla loro città.
Puoi svelarci qualcosa dei tuoi prossimi progetti?
Sto partendo per Teheran. L’avevo già deciso perché la mia città mi manca, senza avere ancora nessun progetto ma con l’idea di preparare il dottorato. Nel frattempo ho saputo del progetto della mia amica, l’artista iraniana Golrokh Nafisi, con la quale ho già fatto varie collaborazioni. Il tema del suo progetto si ispira alle Città Invisibili di Italo Calvino e allo Shahr-e-farang, che sono i cantastorie che giravano in Iran all’inizio del secolo scorso con un semplice visore fatto come una piccola moschea giocattolo in ottone montata su ruote come un carrettino siciliano, Il bello del progetto di Nafisi è che in ogni città racconta di in un’altra città, liberamente invisibile.
L’articolo di Isabella Rossi è stato pubblicato anche sulla rivista on line Roma Italia Lab.