L’intervista a Stefa è iniziata con una visita nel suo studio d’artista, che è poi la “Piccola Scuola delle Arti”: una scuola in cui si insegna musica, scultura, pittura, disegno e che è articolata in una stanza dove le opere vengono pensate, una dove vengono lavorate e dove si fanno lezioni di scultura, e altre due in cui si insegna musica. Gli spazi che la compongono sembrano dunque racchiudere i poli della ricerca di Stefa, che ritroviamo anche nella sua mostra ospitata al MLAC, Forme del sentire: suono, forma e pensiero.
Nella mostra Forme del sentire la scultura viene esplorata insieme al suo aspetto sonoro e indagata nelle sue risonanze. Come è arrivato a relazionare arte visiva e arte sonora, a scegliere di esprimersi attraverso la combinazione di elementi visivi, tattili e acustici? Quali sono le tappe significative della sua formazione artistica?
Il mio percorso artistico inizia con lo studio del pianoforte.
Sopra il pianoforte ci ho combattuto, ma non quanto sarebbe stato necessario per essere un musicista. Successivamente mi sono occupato di produzioni musicali, lavorando con Tony Carnevale e altri musicisti professionisti che mi hanno fatto conoscere il valore dell’arte nel linguaggio sonoro.
Kandinskij definiva la musica come la più alta forma di astrazione dell’arte; Frank Zappa diceva che la musica è una scultura in movimento nel tempo.
Ciò che mi affascina è il non visibile, quel che si percepisce perché esiste nella sua impalpabilità, come l’empatia: quella vibrazione tutta umana che non sappiamo misurare.
Nel 1997 ho iniziato a modellare da autodidatta, poi nel 2001 a studiare scultura con Alessandra Porfidia, presso la quale ho svolto parte del mio percorso di formazione.
Nel 2003 ho vinto il primo premio del concorso indetto dalle Accademie di Belle Arti di Roma, con relativa borsa di studio della RUFA e iscrizione al corso di scultura; parallelamente svolgevo l’attività di artigiano della pietra.
Il mio modo di pensare l’arte è cambiato quando ho iniziato a lavorare come assistente dell’artista Fabio Mauri: con lui ho capito che il lavoro dello scultore non vuol dire solo scolpire la materia, ma che con l’arte si cerca di scolpire il pensiero. Oltre il visibile deve arrivare qualcosa che smuova immagini, riflessioni e a volte emozioni silenziose, come sa fare la poesia.
Un giorno, mentre con Fabio Mauri stavamo andando a Prato per un sopralluogo al Museo Pecci, ragionammo insieme sul mio lavoro di scultore del marmo e parlammo anche un po’ della mia vita. Ne nacque un’opera, non presente in mostra, La ciambella di salvataggio di marmo, che è l’arte: l’arte che mi aveva salvato.
Ho una foto del ’72 di me bambino al Forte Belvedere di Firenze con le opere di Henri Moore, foto che solo molti anni dopo mi ha svelato di aver visto quella mostra. La scultura di Henri Moore ha una forte relazione con le forme della natura, la cui bellezza ha in sé armonia senza perfezione, che è prerogativa delle forme vive. Armonia senza perfezione che perseguo nel mio lavoro.
Nel 2010 ho anche fondato una scuola d’arte la “Piccola Scuola delle Arti”.
L’opera collettiva Piano di curve sonore è frutto dell’incontro di un musicista, un filosofo e uno scultore (per tornare sempre alla triade suono/pensiero/forma) e questo intreccio sensoriale è evidente nell’opera. Come è nata?
La scultura sonora è nata come opera collettiva ed è frutto delle coincidenze createsi proprio dentro la “Piccola Scuola delle Arti”, che hanno permesso l’incontro con il musicista e maestro di musica elettronica Edoardo Maria Bellucci e con il filosofo Federico Capitoni. Fare quest’opera insieme ci ha messo in risonanza, diciamo.
L’opera nasce con dei materiali di recupero: legni ottenuti da casse da imballaggio, l’arpa di un pianoforte verticale che stavano per buttare, ecc.
Piano di curve sonore è un’opera sincretica, che intesse relazioni tra arte visiva e arte sonora. In altri termini è il tentativo di individuare nella risonanza la vibrazione dell’empatia.
Nel risuonare, la scultura interattiva restituisce la vibrazione di chi la tocca, nel tentativo di una risposta emozionale empatica.
Come è nata l’idea di associare il suono all’impalpabile vibrazione dell’empatia, quella che tu definisci la “risonanza empatica”?
L’idea nasce dal libro di Worringer Astrazione ed empatia, ed ecco quindi l’associazione di astrazione con la musica, il suono e la vibrazione della risonanza. E’ questo il vero oggetto di ricerca del mio lavoro e da qui nasce l’idea dell’opera Piano di curve sonore.
Nelle sue opere è spesso presente questa riflessione sulla risonanza emotiva, ossia su quanto è invisibile della biologia umana. Mi vengono in mente le Membrane, serie di opere presenti in mostra, alcune delle quali con dei microfoni a contatto sulla superficie per tradurre le vibrazioni del loro corpo in una risonanza udibile. Il loro titolo sembra rimandare alla membrana per eccellenza: la pelle. Perché la biologia è così importante nella sua ricerca artistica?
Per me la biologia umana è arte. Ha insieme l’elemento vivo e tangibile e l’elemento psichico, che potremmo definire come il non visibile, un po’ come un’opera d’arte, concreta nel suo aspetto tangibile, ma che porta in sé qualcosa di impalpabile, che è ciò che ne produce senso, contenuto, significato, emozioni.
Questa mostra nasce dall’intenzione di indagare e svelare attraverso la biologia umana ciò che di essa rimane invisibile, l’aspetto non materiale che essa cela: il pensiero.
Lei riconduce la mostra all’esperienza del dottor Semmelweis: un inno alla ricerca, alla scienza e alla scoperta, che unisce il ricercatore e l’artista. E nell’opera Sinapsi della conoscenza vi è una mano che prova ad afferrare un’intuizione, ma che non riesce a tirarla giù, per portarla su un piano di concretezza e dimostrabilità. Da dove nasce questo omaggio a un uomo di scienza, e quest’idea dell’arte come ricerca, come zona di sperimentazione?
La necessità di sperimentazione dell’artista lo avvicina alla figura del ricercatore, dello scienziato. Ricerca, creatività e intuizione li accomunano, infatti, rendendoli capaci di svelare il loro percorso attraverso un unico strumento: il pensiero umano.
Fabio Mauri ha scritto L’avanguardia come zona. L’avanguardia è una zona in cui entri e sperimenti. L’arte è ricerca e sperimentazione. L’esperimento del mondo di Fabio Mauri mi è arrivato e ha cambiato il mio mondo e il mio modo di pensare l’arte, portandomi a percorrere strade diverse e inesplorate. Il mio processo di lavoro è infatti atipico: la forte dislessia non mi aiuta nel disegno. Quindi preferisco lavorare direttamente su una superficie tridimensionale, piuttosto che piatta, come si fa per la scultura a tuttotondo. Non faccio nessun bozzetto o forma di progettazione. Il processo creativo è quindi più veloce perché non segue un percorso razionale. Vado seguendo la mia idea, mentre lavoro direttamente con la materia e confrontandomi con la sua risposta. Mi affido a un processo non razionale. Se sbaglio scelgo se seguire l’errore come un’occasione di scoperta, o meno. La scultura è tridimensionale, è già nella realtà. Aspetto che la forma si realizzi e mi lascio guidare dalla sua coerenza e completezza. Il fatto che sia in divenire mi dà la possibilità di non avere limiti.
Dare senso con la forma. L’opera staminale libera rimanda a questo processo: è una cellula totipotente, di per sé l’emblema del divenire, che poi si specializza e diventa parte di un tessuto o di un organo rendendolo sano. Si definisce rispondendo a ciò che serve alla continuità della vita, un po’ come fa l’arte per l’essere umano.