In occasione della mostra Luigi Battisti. Opere 1992-2019 (Università di Roma La Sapienza, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, 6-24 novembre 2019) a cura di Francesca Gallo, l’artista Luigi Battisti (Poggio Bustone, 1957) ripercorre le tappe del proprio percorso artistico in conversazione con Arianna Desideri. Un dialogo che approfondisce metodi operativi, poetiche e temi attraverso le opere in mostra, composte da una selezione rappresentativa di quasi trent’anni di ricerca, esposte in questa prima antologica in un’istituzione pubblica romana.
La mostra Luigi Battisti. Opere 1992-2019 raccoglie ormai quasi tre decenni di sperimentazione, presentandosi come una summa per tappe del tuo lavoro. Da Rombo (1992) a Pitture (2017-2019), è possibile cogliere l’evoluzione ma anche l’andamento non lineare della tua ricerca, che procede per ambiti contigui, passi avanti, laterali e che spesso, a distanza di tempo, torna anche su se stessa, creando un inaspettato fil rouge tra le opere. Quali sono stati i momenti nodali e le consapevolezze maturate sin dal tuo periodo di formazione?
Gli anni dell’Accademia di Belle Arti a L’Aquila hanno rappresentato una parentesi importante per lo sviluppo della mia poetica. È stato però un percorso abbastanza autonomo. In quel periodo ero molto combattuto su quali forme dare e quali tecniche utilizzare nei miei lavori – e tutt’ora continuo ad esserlo. I primi cicli degli anni Ottanta erano influenzati soprattutto da ciò che mi capitava di vedere nelle grandi mostre, come quella di Emilio Vedova alla XL Biennale di Venezia, che per me è stata folgorante. Ho passato mesi a dipingere su grandi carte con un gesto prettamente fisico, violento, al contrario di quello che prediligo ora, di natura più misurata e puntuale. Da quando sono arrivato a Roma, ho avuto una percezione più completa e consapevole del mio lavoro, soprattutto grazie alla scoperta della geometria come possibilità di strutturazione dello spazio, pittorico e non. Nel 1992, la prima personale allo Studio Scalise a Napoli ha messo a punto le certezze che fino a quel momento avevo maturato.
A proposito del 1992, Rombo si pone all’origine dell’intero percorso di mostra, esposta per la prima volta. Dello stesso anno, anche Scalfitture (1992-2018). Entrambi evidenziano la volontà di testare il rapporto tra pittura, spazio e materia, fattori tutt’ora al centro delle tue riflessioni. Quale eco hanno lasciato le due opere nelle tue produzioni successive?
Rombo rappresenta il primo tentativo di indagare lo scarto volumetrico, la riduzione all’essenziale. A partire da un parallelepipedo pieno, ho combinato tutte le possibilità di passaggio dal pieno al vuoto, di svuotamento del blocco iniziale, per poi trattare la superficie del legno con lo stucco. Nelle Scalfitture, invece, la scarnificazione del materiale è preceduta dalla pittura secondo una precisa sequenza cromatica – da poco rivisitata con l’introduzione del grigio, che interrompe la scansione ritmica dei rossi e dei bianchi. La geometria torna: l’asse verticale è sviluppato dal colore, mentre l’orizzontalità è data dal procedere dello scavo, dalle “tracce” che risultano. L’incontro di queste due direttrici è il nodo dal quale si svilupperà il lavoro degli anni successivi. In più, il concetto di “traccia” si profila per la prima volta come scrittura alternativa al linguaggio verbale. Da qui in poi ho cercato di racchiudere e far accadere all’interno dell’opera tutto ciò che volevo esprimere a livello pittorico, senza la necessità di una narrazione esterna, di una storia, della parola. Tutto si risolve nel rapporto tra pittura e superficie, nell’interazione tra questi due elementi.
Mi vengono in mente gli ultimi lavori, Pitture (2017-2019), dove la “traccia” a cui fai riferimento si trasforma in uno schema ortogonale che accoglie una scrittura esclusivamente pittorica, più vicina ad una partitura musicale che a un alfabeto. Penso anche a Muti (1995), in cui si assiste a una contrazione dell’espressione verbale fino a un suo annullamento. In che modo, al contrario, la pittura cerca di articolare un linguaggio proprio?
Nelle Pitture, la traccia diventa una linea orizzontale che porta con sé un valore simbolico strutturale, un qualcosa di originario – come in diciamo Nulla (2010) o nei Quaderni su cui sto lavorando di recente. Nella serie, a distanze ben misurate, applico il colore sulla tela direttamente dal tubetto, procedendo da sinistra a destra, come si trattasse di una scrittura. Su ogni punto, do un colpo da destra a sinistra come in un atto di cancellazione, che trasforma i segni in notazioni musicali. Così scandisco anche il gesto, lo rendo ritmico e cadenzato fino ad arrivare al terzo movimento, ora dall’alto al basso per la definitiva stesura del colore, a sancire la direttrice verticale. Cerco un ritorno all’origine, accantono il pennello, utilizzo un supporto grezzo. Riduco al massimo, fino a guardare dentro la pittura, ovvero dentro la sua stessa sostanza. Riconduco il significato al colore. Sviluppo un linguaggio all’interno, sulla superficie, non fuori. Molti dicono che si riesca a capire un’opera quando questa racconta una narrazione che siamo abituati a sentire, che risulta familiare. La pittura non è questo, anche nelle grandi icone come Caravaggio: non è la storia, ma un elemento insondabile. La pittura è ciò che accade tra l’artista e la superficie. E cambia per ognuno, inevitabilmente, sempre. Se dovessi chiedermi: cosa è per te l’arte? Ti direi: è la mia relazione con la superficie e il colore.
Alla luce di queste considerazioni, allora, come possono essere letti gli interventi che hai realizzato in un’ottica site-specific? C’è un nesso tra la tua pittura e la ricerca oltre il supporto bidimensionale, oppure sono due processi in antitesi?
C’è una connessione profonda, a partire dal fatto che il materiale pittorico per eccellenza per me è il colore. Quindi, se esso sta su un piano o su un volume cambia poco, perché mi interessa indagare in che modo la pittura si esprime all’interno oppure al di là di se stessa. Dalle Scalfitture (1992) ai Siliconi (2004-2005), scavo nel legno per lasciare che essa trovi altre modalità di espressione. Negli interventi site-specific lo spazio influisce moltissimo, poiché a partire dalla sua osservazione trovo un appiglio per progettare. Ring (2014), ad esempio, nasce dall’idea di coinvolgere in un gioco di fili di lana le due statue dei Dioscuri (Roma, Liceo Artistico di via Ripetta, Aula Magna) legandoli attraverso precise corrispondenze geometriche, le stesse che strutturano il mio spazio pittorico. Per l’installazione Bozzolo (Roma, Museo Hendrik Christian Andersen, nell’ambito della mostra Sintattica, claudioadami, Luigi Battisti, Pasquale Polidori, 2015) ho pensato di contrarre e avvolgere quelle stesse linee intorno a dei pilastri: ma se immaginiamo di toglierli, cosa resta? Il vuoto e la cornice – un ring, appunto. Ugualmente accade per Sem/Senza (Napoli, Pan, 2009) e per il mio ultimo intervento al MACRO Asilo (Roma, 2019), dove la differente combinazione di cartoncini – sospesi, a parete, su pavimento – forma un’installazione cromaticamente vibrante, in dialogo con il sito.
Credo che Ninfee (2014) possa evidenziare in maniera emblematica la tua ricerca riguardo la pittura e il suo linguaggio, con un movimento che oscilla dentro, al di sotto e al di fuori di essa. Ovvero l’occhio del pittore che osserva lo spazio tridimensionale come indagine interna al medium. Cosa cercavi di preciso nelle opere di Monet all’Orangerie?
L’incipit, anche in questo caso, è il colore. Volevo realizzare una serie di carte con delle lievissime variazioni cromatiche, partire da una tonalità per procedere al suo annullamento nella percezione visiva. I primi lavori presentano un contrasto molto evidente, mentre in quelli successivi ci si avvicina al monocromo e il colore originario perde la sua nominalità. Infatti, non si può più definire se si tratti di un azzurro, di un rosso o di un grigio. Piuttosto, l’Orangerie mi ha suggestionato come sistema installativo. La sua forma ad ellisse innesca una continuità visiva immersiva, che assorbe lo spettatore fino al capogiro. Nell’allestimento di Ninfee al Museo Hendrik Christian Andersen (Sintattica, claudioadami, Luigi Battisti, Pasquale Polidori, 2015), però, ho voluto ribaltare il paradigma posizionando le opere all’esterno del perimetro, innescando un movimento in avanti, respingente. A seconda delle occasioni, in accordo con lo spazio, cambio disposizione e successione delle carte. E qui [nella sala del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea] è come se, senza neanche farlo di proposito, ci trovassimo invece all’interno della curva. Una curva che, se chiusa e proseguita al di fuori, formerebbe proprio una grande ellisse, una geometria ideale.
Roma, 15 novembre 2019