Fin dagli anni ‘60 Luigi Di Sarro lavora con tecniche e linguaggi diversi, secondo un’attitudine sperimentale e aperta, attenta, prima che alle immagini, al loro processo costitutivo. A confermarlo è il segno, una cifra ricorrente del lavoro dell’artista, declinato attraverso alcune delle sue tecniche elettive e sviluppato in senso figurativo o astratto, ma sempre processuale.
Nella sequenza dei disegni in mostra, datati tra il 1967 e il 1973, si evidenzia, ad esempio, un segno continuo che traccia forme riconoscibili – un uomo di profilo o il piccolo paesaggio con una donna al balcone –, e successivamente si fa astratto, sviluppato alla maniera di una linea continua, oppure in segmenti frammentati che segnano volumi, pieni e vuoti, e infine impiegato nella resa di un’idea di spazio come ambiente. Ancora il segno è la matrice di alcuni disegni degli anni Settanta in cui prevale l’elemento volumetrico. Questi, ripresi, fotografati e stampati su lucidi, divengono l’anima di altri lavori, grafici e fotografici, da produrre in serie.
Sempre il segno è al centro di un vasto corpus di sculture in tondino di ferro in cui la linea è ora essenziale, ora, come nel disegno continuo a matita, generatrice di nodi di linee che sono, anche, spazi dinamici capaci di generare nuove ombre e proiezioni nell’incontro con la luce. Infine il segno declinato in modalità diverse nella fotografia, una tecnica che l’artista adotta dalla fine degli anni ‘60 ‘giocando’ con il mezzo, sia in fase di ripresa sia in quella di sviluppo e stampa, per misurare analiticamente il funzionamento di alcuni fenomeni quali il movimento, il riflesso, il colore e la luce, spesso mettendosi direttamente davanti all’obiettivo.
Ecco allora il segno-neon, composto geometricamente come successione di linee, come spazio, oppure fonte di luce e di atmosfera nell’incontro con il corpo umano; il segno dato dall’ombra delle tapparelle riprese in controluce e, analogamente ad alcuni esperimenti portati avanti da Pablo Picasso nel 1949 in collaborazione con il fotografo Gjon Mili, il segno come scrittura di luce protagonista di alcune sequenze fotografiche a colori e in bianco e nero. In questi casi l’artista, tenendo in mano una torcia, traccia nell’aria dei segni, oppure fissa delle lampadine in alcuni punti nevralgici del corpo (suo o di amiche-modelle), poi, impostando dei tempi lunghi di ripresa fa sì che la macchina traduca la luce in affascinanti scie luminose, sorta di calligrafia orientale, fatta di ritmo e gesto, e quindi ancora di corpo, spazio e tempo.