Luigi Battisti. Opere 1992-2019

Formatosi negli anni Ottanta all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, Luigi Battisti (Poggio Bustone 1957) esordisce negli anni Novanta con modalità astratte per certi versi vicine al cosiddetto Neo-Geo(metrico) e con una attenzione alla terza dimensione che lo porta subito a sperimentare la scultura costruita e le installazioni modulari. Questa fase è documentata in mostra da due lavori del 1992: Rombo, una composizione inedita che testimonia l’originaria fascinazione per la combinatoria di forme e colori, e Scalfitture, esposta alla prima personale allo Studio Scalise a Napoli, e nella quale Battisti si cimenta in un rapporto fisico con le superfici di multistrato, incise e scavate, prima di essere ricoperte da colori. Qualche anno dopo, Muti (1995) e Oh Maggio (1995-97) sono vere e proprie sculture ambientali, particolarmente versatili le prime per la loro implicita libertà di disposizione, mentre l’apparente monoliticità della seconda viene incrinata dall’ironia del titolo. L’elemento verbale, d’altronde, è destinato ad assumere un preso crescente nel lavoro di Battisti, per le suggestioni mutuate dalla narrativa e dalla poesia, inoltre, i Muti sono una sorta di striscioni politici silenziati perché chiusi e quindi illeggibili: uno dei rari lavori politici – spiega Battisti – nato nella fase di passaggio tra Prima e Seconda Repubblica, latore di una spinta verso la tabula rasa ricorrente nell’artista.

La sensibilità verso lo spazio reale, tipica di Daniela Buren e di Sol LeWitt, ad esempio, sfocia naturalmente anche in Battisti verso la dimensione installativa, per approdare negli ultimi anni a soluzioni site specific. I primi indizi in tal senso si riconoscono nell’allestimento della personale Luigi Battisti. C’è da vedere, nelle monumentali sale di Palazzo Compagna a Cosenza (1996), e poi nella plasticità di Fortezza (2002). Ma è soprattutto con i più recenti Ring (2014) e Bozzolo (2015-17) che i colori – ora costituiti da fili di lana o di cotone – avvolgono e ridefiniscono percettivamente la struttura architettonica, che da cornice neutrale si fa elemento dialogante con cui l’artista interagisce.

Un terzo elemento qualificante della ricerca di Battisti è l’esplorazione dei materiali e delle componenti linguistiche basilari della pittura. Il perdurante approccio concettuale e minimalista determina esiti talvolta di lontana ascendenza optical, talaltra di sconcertante azzeramento percettivo come in diciamo Nulla (2010) una serie di carte in cui, al posto dei colori, l’artista dosa gocce di olii siccativi (di papavero o di lino). Il motivo, ancora una volta modulare, è una composizione geometrica su base quadrata, in cui la diversa intensità degli aloni, tutti accordati sul monocromo, suggerisce una luce pulsante, o forse addirittura un suono di durata o di intensità variabile. Sono anni in cui l’ascolto di John Cage e di Morton Feldman, infatti, rinforza il valore costruttivo della pausa e della serialità potenzialmente infinita[1].

Le analogie musicali, inoltre, sono particolarmente pertinenti per le recenti Pitture (2017-19) in cui minime quantità di colore ad olio monocromo sono depositate con fare nervoso e immediato lungo linee parallele che attraversano regolarmente le grandi tele. Lo sfarfallio dell’insieme rivela all’osservazione ravvicinata una sorta di tessitura in cui la pittura pare essudata dal supporto. La mobilità del punto di osservazione è, infatti, centrale nel lavoro di Battisti, ma tocca l’apice in Ninfee (2014-15), costituite da decine di grandi carte cosparse di controllate velature all’acquerello. La composizione si avvale di uno schema ortogonale per la definizione delle variazioni cromatiche, in modo tale che l’osservazione prolungata riveli forme a losanga, con riferimento ai fiori del titolo. La citazione monettiana suona quindi ironica e irriverente, e con essa l’artista dichiara anche il proprio debito verso la tendenza al decorativismo incarnata dalle tele dell’Orangerie: un modello di pittura di superficie, in cui si rischia iperbolicamente di annegare, ovvero di essere assorbiti. La vibrazione del colore delle Ninfee di Battisti non a caso, infatti, riporta alla “memoria dell’occhio” la dialettica fra piattezza e tridimensionalità degli esperimenti retinici dell’Optical Art.

La già richiamata esplorazione del medium pittorico, tuttavia, avviene anche attraverso la dialettica fra sapienza della mano educata e sua apparente mortificazione nella casualità della pervasività dell’acquerello o nell’esecuzione di semplici linee tracciate con matite colorate e riga, come in Regola (2015). Operazioni che, seppure non meccaniche, evocano solo larvatamente il rapporto sensuale con il supporto e la pelle del colore.

La processualità e la fisicità trattenuta quindi, diffuse nella pittura degli ultimi decenni[2], hanno origine qui dalla disciplina a cui Battisti si sottopone, fondata sul rispetto di regole autoimposte di natura formale, che piegano il corpo ai propri ritmi e lo bloccano entro limiti precisi. Una pratica che ha in sé qualcosa di meditativo.

Note:
[1] Cfr. P. Vergo, The Music of Painting. Music, Modernism and the Visual Arts from Romantics to John Cage, London, Phaidon, 2010.
[2] Cfr. Vitamin P: New Perspectives in Painting, London, Phaidon, 2002.