La Fototeca di Adolfo Venturi alla Sapienza: Le tre prospettive

Il 23 Novembre 2018, presso il Museo Laboratorio Arte Contemporanea (MLAC) dell’Università La Sapienza di Roma, si è inaugurata la mostra dedicata alla “Fototeca di Adolfo Venturi alla Sapienza”, a cura di Ilaria Schiaffini e Maria Onori. L’esposizione, frutto di un lungo lavoro di inventariazione, si compone di 46 significative testimonianze fotografiche di grande formato, accompagnate da importanti documenti scritti, elemento di raccordo per comprendere la portata dell’innovazione negli studi storico – artistici concepita da Venturi.
Nonostante i numerosi studi intrapresi, le carte analizzate e i dati raccolti, ancora molto c’è da indagare intorno alla figura di Adolfo Venturi. “Padre” della storia dell’arte come disciplina accademica, ottenne la libera docenza nel 1890 e, dal 1901, ricoprì la prima cattedra di Storia dell’arte in Italia, che manterrà per un trentennio.

“Ricerca, tutela e didattica”: tre vocaboli strettamente interconnessi al contributo che Adolfo Venturi diede alla Storia dell’Arte italiana; contributo che, grazie alla sua Storia dell’arte italiana (1901-1940), non si limitò all’aspetto scientifico ma diede vita a un più generale progetto di politica culturale. Venturi fu promotore di una nuova coscienza e sensibilità unitaria nazionale, che cercò di trasmettere attraverso le aule dell’Università La Sapienza.
Desiderio, il suo, fu quello di elevare le menti all’eccellenza attraverso la creazione di un manuale di insegnamento, utile soprattutto per le future generazioni di specialisti e cultori dei beni storico- artistici.

L’intento di dare fondamento alla disciplina storico-artistica, sia teoricamente che materialmente, fu un percorso non privo di ostacoli, nel quale due sono stati gli elementi cardine: la grande tempestività di Venturi nell’intuire la portata rivoluzionaria del nascente strumento fotografico; inoltre e forse, soprattutto, l’essenziale contatto del giovane Venturi con l’impresa alsaziana di Adolphe Braun, leader delle riproduzioni fotografiche di opere d’arte. L’interrelazione tra didattica e ricerca stava mano a mano prendendo forma. La fotografia sarebbe presto diventata un dispositivo operativo necessario e immancabile per la costituzione dei cataloghi e delle osservazioni scientifiche sulle opere d’arte.
“Fare un vero emporio di fotografie, a cui dovessero accorrere necessariamente gli storici e i critici d’arte per le loro raccolte e i loro studii; i conservatori de’ musei per verificare le attribuzioni dei loro cataloghi; il touriste per serbare ricordo de’ suoi viaggi; ogni uomo di buon gusto, che invece d’una ingegnosa interpretazione dell’incisore o d’una riduzione cromolitografica, volesse una vera traduzione del capolavoro artistico”.
È nelle ultime due righe di questa brillante affermazione che Venturi esprime il suo favore e la sua ammirazione verso gli sviluppi delle tecniche di stampa fotografica, i quali andavano raffinandosi, in Europa, di anno in anno. Gran parte delle 46 stampe esposte alla mostra sono frutto del procedimento di stampa al carbone del quale Braun fu maestro.
Grazie al sistema brevettato da A. L. Poitevin nel 1855, la sensibilizzazione della carta con bicromato di potassio unito a gelatina e nerofumo dava luogo a un’immagine con chiaroscuri proporzionali alla densità e alla trasparenza del negativo. Tuttavia, poiché i mezzi toni risultavano insoddisfacenti, nel 1864 Sir J. W. Swan brevettò un procedimento di trasporto su carta al carbone, che rese così possibile l’ottenimento di un’immagine pressoché inalterabile nel tempo. La grande attenzione alle scoperte tecnologiche di stampa consentì a Braun di realizzare cataloghi d’arte illustrati, i quali divennero ben presto preziosissimi materiali di studio e consultazione.
La cooperazione tra Venturi e Braun si rivelò fruttuosa a partire dal 1884, anno in cui lo studioso commissionò le riproduzioni di alcune opere della Galleria di Dresda, dalle quali Braun ottenne in cambio un articolo su un “giornale d’arte italiano”. Un do ut des lungimirante, che ha condotto la storia dell’arte ad intraprendere nuove ed innovative strade che ancora oggi percorriamo.

Celebre è rimasto, in questo panorama di continua innovazione, il motto venturiano: “Vedere e rivedere”: non una semplice affermazione, ma un modus operandi. Forse è proprio qui che risiede quell’elemento di eternità che il grande storico dell’arte ci ha lasciato. Nell’arte non si finisce mai di imparare; c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e, ogni volta che ci poniamo di fronte ad un dipinto, questo ci apparirà sempre diverso, imprevedibile, esattamente come un essere umano. Nulla, per Venturi e tutti gli studiosi che molto hanno appreso della sua esperienza, è più importante di una mente “fresca”, capace di cogliere allusioni ed armonie nascoste. 
In un mondo come quello odierno, in cui siamo costantemente oggetto di un bombardamento da parte delle immagini, l’uomo dimentica di aver lui stesso creato le immagini per orientarsi nel mondo. Non è più in grado di decifrarle e vive in funzione delle proprie immagini: l’immaginazione si è volta in allucinazione, direbbe Flusser. È dunque per questo che “Vedere e rivedere” sembra essere un motto ancora più attuale, incisivo e visionario. Aprire gli occhi e non liberare la lingua: porsi di fronte ad un’opera con uno sguardo vergine, avventurarsi in un viaggio a volte sconosciuto, la cui meta, ancora da scoprire, potrebbe essere la più grande sorpresa.